Associazione "Socialisti Riformisti" / Comitato Regionale Siciliano per il Partito Socialista Riformista - PSE

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LA MAFIA DOPO L’UNITÀ D’ITALIA

 

L’Italia da oltre cinquant’anni preferisce accordarsi con la mafia piuttosto che combatterla.
Il popolo Siciliano, nonostante il mare di lacrime versate, accampa l’imperitura scusa che la mafia fa comodo a tanti.

 

Innanzi tutto cerchiamo di approfondire l’evoluzione storica della mafia per riuscire a comprenderla meglio. Molti studiosi fanno partire la storia della mafia dall’unità d’Italia. Questo non perché prima fosse assente in Sicilia una forma di criminalità che assomigliasse a quella mafiosa, ma perché è in quel momento storico che si evidenzia un conflitto palese tra questa criminalità, che va organizzandosi in maniera sempre più rigida, e lo stato. Fa notare questo “conflitto” anche un grande studioso di tradizioni popolari siciliane, Giuseppe Pitrè che considera il fenomeno mafioso come un sentimento di libertà, un atteggiamento di fierezza contro le angherie dei potenti e l’inettitudine della legge e dei pubblici poteri. L’unità d’Italia in Sicilia accelerò fortemente un processo di fine della struttura feudale nelle campagne, nel momento in cui integrò l’economia siciliana con il resto del Paese. Inoltre, il nuovo governo piemontese si sovrappose ad una struttura sociale siciliana senza riuscire ad interagire positivamente con essa. Conseguenza di questi cambiamenti fu che nelle campagne i grossi latifondisti cominciarono ad avere bisogno di qualcuno che garantisse loro un controllo effettivo della proprietà, sia per difendersi dal brigantaggio, sia per resistere alle nascenti richieste delle classi contadine per una più equa distribuzione del prodotto del loro lavoro.
Questo ruolo fu affidato alla classe borghese imprenditoriale (classe media). Quindi fin dal principio, la mafia si delinea come un’organizzazione che assume dei ruoli pubblici per eccellenza, che altrove sono di competenza dello Stato. Per farlo i mafiosi ebbero, fin dalle origini, contatti molto stretti con il potere pubblico. Diciamo che un certo modo, la mafia fa leva sulla debolezza dell’uomo consapevole dei propri limiti. Le collusioni, fin d’allora, non si limitavano ai bassi livelli, ma arrivavano a toccare le autorità prefettizie e, segno di grande continuità con l’oggi, i politici. Ed è del tutto naturale che il terreno “fertile” per queste collusioni era più nelle città, dov’era concentrato il potere politico, che nelle campagne. È un errore considerare la mafia delle origini soltanto come mafia rurale, poiché il ruolo delle città, come luogo politico e commerciale, era invece molto importante.
La mafia attua una forma primitiva di giustizia, che si regge sulla segretezza e sull’omertà ricorrendo ad intimidazioni, estorsioni, sequestri di persona e omicidi, allo scopo di proteggere interessi economici privati o di procurarsi guadagni illeciti. La mafia detta anche “Onorata società” e “ Cosa nostra”, è un sistema illegale ampiamente diffuso, che per certi versi può considerarsi una sorta d’antistato. Essa, persegue con la minaccia interessi illeciti, esercita il proprio controllo su gran parte delle attività economiche, condiziona il mercato del lavoro, offre possibilità di carriera (criminale), fa rispettare il “suo ordine” e la “sua giustizia”, gode del favore di una parte considerevole di siciliani. La prevalente metafora della piovra mal si addice alla realtà mafiosa, giacché lascia pensare ad un potente animale in grado di immobilizzare la società che cattura. Invece la mafia è forse meglio rappresentabile con l’immagine di un parassita (un virus) o di un liquido che pervade di se l’intera società e ne segue l’evoluzione adeguandosi ai tempi. E sta qui uno dei punti di forza della mafia, vale a dire quello di adattarsi alle diverse situazioni che nel tempo gli si presentano. Alla fine dell’Ottocento, migliaia di siciliani emigrarono portando la mafia negli Stati Uniti e dando vita ad una potente associazione chiamata “Cosa Nostra”. Da allora i rapporti tra le due mafie rimasero sempre intensi, anche durante il ventennio fascista. L’avvento del fascismo segnò un periodo di declino per “Cosa Nostra”, che si vide attaccata dal prefetto Cesare Mori, (in seguito ricordato come “il prefetto di ferro”) inviato a Palermo con pieni poteri. Mori impegnò le forze di cui disponeva in azioni che misero in ginocchio la malavita, ma arreco gravi danni alla società civile. La mafia non fu vinta, infatti, dopo la caduta del regime fascista, in breve tempo tornò ad occupare le precedenti posizioni. Quando nel 1943 le forze alleate degli USA sbarcarono in Sicilia molte persone tirarono un sospiro di sollievo. Tra queste c’erano molti mafiosi i quali, avendo favorito l’evento, sapevano di avere a disposizione più liberta di quanto non ne avessero avuta durante la seconda guerra mondiale, sotto il potere dei fascisti. Con lo sbarco americano viene fondato l’AMGOT (Allied Military Government of Occupied Territory, amministrazione militare americana che si dedicava al governo dei territori occupati). L’AMGOT era guidata dal colonnello Charles Poletti, a cui fu assegnato il compito di nominare i prefetti e sindaci a capo dei paesi della Sicilia. Poletti cercò di sapere attraverso il popolo alcuni dei nomi più affidabili per metterli al posto dei podestà fascisti, purtroppo gran parte dei nominativi appartenevano a boss mafiosi o comunque ad uomini ombra cresciuti in ambienti sporchi della malavita americana. Conclusione: la mafia prese il controllo della metà dei comuni siciliani come non era mai successo. Inoltre gli americani nominarono anche i rettori universitari e addirittura i magistrati. Nel corso degli anni cinquanta non vi furono scontri fra lo Stato e l’Onorata Società che, riuscì a stabilire uno stretto legame con una parte non marginale della classe politica, in virtù del quale i politici concedevano favori illeciti ai mafiosi che, in cambio, assicuravano loro una forte base elettorale. Pur essendo avvertito dagli abitanti dell’isola, il problema della criminalità organizzata era in quegli anni assolutamente sottovalutato a livello nazionale. Negare l’esistenza della mafia era sempre più difficile quando, nel 1962 scoppiò quella che viene definita la “prima guerra della mafia” che vide le più potenti famiglie del capoluogo affrontarsi in una lotta d’inaudita violenza. Lo Stato non poté più continuare ad ignorare il fenomeno e molto presto ci fu l’arresto della maggior parte dei capi mafiosi. In seguito, la mafia tornò ad organizzarsi (anche grazie ad un allentamento delle misure straordinarie di sicurezza) divenendo più temibile di prima tanto che fu ormai in grado di condizionare la magistratura e addirittura i Sindaci di Palermo (Lima e Cianciamino). Dallo stato, intanto, un flusso di denaro giungeva in Sicilia per finanziare i lavori pubblici. L’alleanza segreta tra mafia e politica si fece sempre più stretta e chiunque tentasse di scioglierla, cadeva vittima degli attentati di Cosa nostra. Adesso l’Italia che riduce tutte le sue ferite e le sue vergogne ha celebrato il suo eroe preferito Giovanni Falcone; quello morto e sepolto. Ma Giovanni Falcone non fu quell’eroe solare, sicuro del patrio riscatto che si disse. Fu un eroe disperato, come Borsellino e gli altri giudici e poliziotti sacrificati dallo stato in una lotta che non voleva e probabilmente non vuole vincere. C’è un limite a tutto anche nell’ipocrisia di potere. Non si può dire, come fa il presidente del consiglio Berlusconi, che “molte delle proposte e delle idee di Falcone si ritrovano nella nostra riforma della giustizia”. Non si può dire come fa il presidente del senato Pera, che Falcone “antepose a tutto l’indipendenza e l’autonomia della magistratura” senza ricordare che proprio per quest’indipendenza e autonomia morì. Falcone è nato nel centro di Palermo, in un quartiere fracido di povertà e di storia. I mafiosi che ha combattuto erano suoi compagni di gioco, parlavano come parlava lui, egli conosceva il significato delle loro parole, ciò che sta dietro alle parole di un palermitano. I mafiosi che lo hanno assassinato lo sapevano, lo hanno sempre saputo ma rispettato. Nella Sicilia attuale del presidente centrista Totò Cuffaro, sono in arrivo valanghe di miliardi dei sussidi nazionali ed europei; come dubitare che sia tornato il tempo della convivenza? Falcone parlava bene la lingua siciliana e conosceva molto bene gli inganni del governo, non era uno sprovveduto ma lo muoveva un’autentica e moderna ricerca della verità, simile in un certo senso ad Antonio Di Pietro nell’inventare, prima da dilettante e poi da maestro, nuove e più attrezzate forme d’indagine, ma sempre pronto a buttarsi come un ragazzo nella caccia al delitto. Io mi sono chiesto, nel giorno della strage di Capaci, se il Parlamento è il nostro, in cui ci sono decine di deputati che devono la loro elezione alla mafia e sono lì per impedire che lo stato combatta sul serio.

 

FORTUNATO GITTO

 

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